Col mio recital IL FILO D’ERBA e la musica del repertorio popolare di Rocco Gruosso e Nura Spinazzola, sarò a Forenza, su invito del Presidente della locale Pro Loco Antonio Masi, la sera del prossimo 13 agosto, in occasione della 12ᵃ Edizione della Giornata sulla Civiltà Contadina nel Casalotto di vico giugno a partire dalle ore 21.30.
(Dino Becagli)
In occasione del centenario della morte di Rocco Scotellaro, ho rispolverato il mio recital IL FILO D’ERBA, portato in scena per la prima volta allo Stabile di Potenza il 28 giugno del 2008 a completamento della triade sui maggiori poeti lucani del secolo scorso, dopo quelli su Pierro e Sinisgalli. Lo spettacolo che può essere definito un centone, perché racconta la vita di Rocco Scotellaro utilizzando i suoi stessi scritti, sarà presentato nel corso dell’anno in varie piazza e scuole della regione. Sul poeta di Tricarico sono stati scritti fiumi di parole, mai troppe per ricordarlo alle giovani generazioni. Giuseppe Giannotta, di 11 mesi più giovane del monachicchio rosso, come lo stesso definisce il suo compagno di scuola Rocco Scotellaro, è stato un Magistrato (Procuratore Generale on. della Corte di Cassazione), ma anche poeta, troppo presto, forse, dimenticato. Ho avuto la fortuna e il piacere di conoscere personalmente Giuseppe Giannotta, tramite l’amico-poeta Osvaldo Tagliavini; in quel periodo, i due vennero più di una volta a trovarmi e in una di quelle ultime occasioni il Dott. Giuseppe mi fece omaggio, con dedica, del suo Robbò, romanzo appena edito da Laboratorio delle Arti di Milano nel febbraio 1993. Per far godere il lettore delle belle parole che solo il poeta sa usare per raccontare il suo amico di scuola e onorare la memoria di entrambi, mi piace qui riportare questo stralcio dal paragrafo Il Monachicchio Rosso: “E un giovane, nella mia città, generoso di sangue proprio, del proprio corpo e della sua faccia smunta, bianca, qua e là divisa da lenticchie rossicce, alle ingiurie e talora agli schiaffi e alla cachinnante masnada dei potenti, galvanizzava le misere genti, le portava da vicino a toccare il panno dell’alba – promessa d’una arrampicata ai piani di sopra –, le faceva felici di pace, donava i suoi sogni. Io che lo conobbi nella scuola, diavolo rosso in movimento, monachicchio delle nostre dimore, impedite da pareti e torri ; io che l’avevo visto il primo giorno, quello della conoscenza dei miei compagni di 2ᵃ elementare – come un mulino – macinare i suoi gesti, i suoi vocaboli, le sue ordinanze, il suo fascino di capo; io che l’avevo avuto al mio fianco, alla 4ᵃ ginnasiale, quando i languori dell’adolescenza lo rendevano triste e gli dettavano i malfermi versi; io lo vedevo ora, passato l’inceppo dell’insicura età, altra volta spingere lingua e i moti della mente con la solita maestria. Non era presunzione di emergere, attitudine di fare comunque epoca, ma autentico zelo per i diseredati, che lo portava, libero con la chioma rossa, sciolta agli umori del mese, a chiedere giustizia e assegnazione d’un ruolo a ognuno, a imbracciare anche lui, nella folla scomposta, arnesi e simboli di condizione contadina, e a tracciare – nei campi sepolti da vegetazione maligna – la porzione di terra per ogni famiglia. Anche lui, come gli altri, fu chiuso in carcere e, con che ardore la tortora, la bella tortora verde-mare, che spiava tra i ferri del cancello, gli dava una notizia d’aria buona, o la speranza del termine della prigione, durata per oltre un mese, fra ladri e omicidi, scassinatori di bauli e di vulve, falsari e rapinatori di pecore. E quella galera che finì – oh sporcizia – come le insidie che si programmano, soffocata in un festino nell’abitazione del liberato, ma ricondotta come un chiodo, spezzò in parte il suo cuore, ma non lo fiaccò, deciso più che mai a rivendicare la bellezza e la grazia ai lavoratori. Parlò molto, dinanzi al Vescovado, su un pozzo medioevale di bianca pietra, cinto in sommità da una copertura in ferro, spesso battuto dai piedi di noi ragazzi; parlò e spiegò che bisogna togliere l’ipocrisia e il coltello alla schiena, il trucco teso dalla ricchezza ai poveri; concluse che occorre andare avanti, non per curve, ma per strade vigilate dal sole e dagli occhi di tutti, per viali immensi dove le moltitudini ammassate cambiano il numero pazzo per l’alleanza. Parlò, volgendosi furioso, verso le balconate del Vescovo, aprì altro fuoco, agli incroci dei palazzi paralleli, e passò in città, si vide dimenticato nelle afone stanze cittadine, sognò il ritmo di festa nel suo quartiere, e scrisse in altro modo, visitò altri posti di carestia, esternò visioni Dino Becagli di poesia assai vicino al centro dell’esistere, e pianse. E poi il suo cuore si fermò, come un debole cuore, punto da offese, schiaffeggiato da inganni del singolo e dall’organizzazione opposta, piccolo cuore, ricco di lacrime, accenti e effusioni.
(Dino Becagli)